Battisti a Livigno, dovette mandarmi a Chieri per l’istruzione delle reclute, essendo io il più anziano ufficiale del Battaglione in fatto di servizio in linea. Mi reco ad Exilles: nel forte non trovo il distaccamento reclute del’99 da istruire, trovo invece il vecchio tenente Colonnello Borgialli, dai lunghi baffoni bianchi come la neve, spioventi a coprire un affettuoso sorriso atteggiantesi a protezione: il mio arrivo sconvolse e mise sottosopra la tranquillità della vita al forte :”Un cit... che viene dal fronte, dal Battaglione mobilitato! Porta notizie, deve raccontare dettagli, precisare date, ricordare nomi e persone e che so io; sebbene il mio appetito fosse quasi formidabile ed i cibi squisiti, non avevo tempo di inforcar un boccone, boccone che dovevo infornare e poi, masticando a bocca piena, rincrescendomi di mal ricompensare tanta cortesia di attenzione facevo attendere il racconto fra due bocconi e rincrescendomi maggiormente rinunziare a rimpinzare il sacco vuoto. Oh, l’appetito a vent’anno è poesia. Dormii una notte al forte; l’indomani lo visito dall’infermotto all’allevamento dei piccioni su nel solaio, col maresciallo addetto ai colombi. Interessante molto la colombaia: è uno degli spettacoli che mi rimasero impressi e mi interessarono assai.Il Colonnello Borgialli conosceva molto meglio di me la Valle d’Aosta e ne era lusingato, ne approfitto per farmi firmare una breve licenza per recarmi a salutare la mia famiglia prima di presentarmi a Chieri, ove erano effettivamente le reclute: non lo sapevo prima, per via ufficiale, e ne approfitto per visitare di volata la Valle di Susa. Dopo cinque giorni di lieto soggiorno colla famiglia, mi presento a Chieri, Istruzione reclute del ’99. Appena giunto a Chieri e reduce della prima presentazione di dovere al Comandante Maggiore Di San Marzano, dovevo accingermi alla non lieve fatica di trovarmi un alloggio. Per incominciare bene le cose mi recai ad un caffè in Piazza Cavour che mi sembrava decente e decoroso ( dovevo pensare al “decoro della divisa” e non ci era lecito frequentare tutti gli esercizi!). Mentre sto sorbendo un rinfresco una mano mi afferra una spalla e mi scuote come si fa con un sacco per svuotarlo bene, ma dove va ora il “decoro”? Mi volto e mi trovo naso a naso con quel satanasso di Conte Di Caporiacco , da Udine, quel tale che mi divertivo a far stizzire quand’era all’Exilles, a causa di “quel filo di sangue blu”, Ehi, non è l’etichetta che si addice a un conte questa. Egli è troppo lieto dell’incontro e non arresta di strappare domande su domande finché non gli ho raccontato tutto, vita e miracoli di quelli del Battaglione dal giorno della sua dipartita all’attuale. Tutti siamo lieti di tornare indietro, ma il nostro cuore, tutto il nostro animo non si stacca dal Battaglione mobilitato: là c’è il cuore che pulsa, là è il motivo della nostra vita, di ogni atto della nostra vita, e lontani, lo amiamo ancora di più. Anche Di Caporiacco era un sentimentale, pratico negli atti di ogni dì, colla nostalgia nell’intimità del pensiero. Fu lui a offrirmi di occupare la stanza lasciata vuota da tre giorni dal Tenente Manfredi, che componeva un appartamentino di tre vani in Casa Losano, al quarto piano, cioè al primo piano sotto le nuvole, così come piace e si conviene agli alpini. Il prezzo conveniva alla borsa malata di bolletta cronica, soprattutto ero contento di due cose: si godeva di ampia visuale panoramica e non era lecito portare in casa delle visitatrici; questa seconda condizione mi faceva l’effetto di un parafulmine e mi affrettai per essa ad aggradire e fissare l’alloggio mentre nel mio capriccioso cervello c’era la buona intenzione di far vita casta , così il 50% del pericolo era scongiurato per sfuggire all’altro 50% non mi rimaneva che non accettare la troppo cortese ed eventuale ospitalità altrove, e pensavo, così ora sono bene. Siccome in tutte le lettere che mandavo alla mamma c’era la barzelletta, tra il serio e il faceto le dissi anche questa, e aggiunsi: “A cento passi sta un convento di domenicani; sotto di noi sta la vecchia vedova di un professore chiamata anch’essa professoressa, la rimanenza dell’alloggio è vuota e la padrona che ha il marito al Comando Supremo viene solo una volta alla settimana senza farsi vedere; sulle scale non incontriamo mai nessuno”. La vita in quella cittadina non fu quale la desideravo. Venne l’aspirante Ferri che per mio interessamento occupò una camera, la più bella , dell’alloggio sottostante, colla Professoressa:: ero già in buone relazioni con quella vecchia signora, che mi guardava fisso con gli occhi grigi, metallici, dietro alle sue lenti; Ferri studiava pianoforte ( da borghese, s’intende) e sarebbe stato lieto di trovare un piano per continuare i suoi esercizi, cosa non facile. Alla mattina seguente, facciamo istruzione di ordine chiuso alle reclute, su al camposanto vecchio. Al primo “rompere le righe” lasciai quei cappelloni sbrigliarsi a gradimento ( ero ridiventato Bric!) Mi infilo nelle viuzze semi campestri adiacenti alla strada, orlate in modo bizzarro e discontinuo dalle cinta di giardinetti entro i quali c’è il “villino”. Il fiuto e l’istinto mi spingono a inoltrarmi fra i fiori ed i cancelli: ad un tratto le note di fili armoniosi mi colpiscono i timpani, ho trovato! Non mi resta che individuare da quale villino provengano, e individuatolo, senza tanti complimenti tiro la corda del campanello, e mi presento. Bric è accolto in modo affabile, forse grazie alla divisa, sebbene sul volto di quelle tre signorine che stavano occupate a far della musica si leggesse più che lo stupore una lunga sequela di interrogativi. Mi ero cacciato in una strana situazione profano, o quasi, di musica, amico di un ufficiale che conoscevo da tre giorni, e del cui talento musicale non ero certo, e per lui mi avanzo a implorare la cortesia di lasciarlo fare alcune ore sul piano in casa di persone gentili (sì gentili, ripeto), ma sconosciute e oramai siamo in Piemonte e non già attraverso le inoltrate retrovie ove tutte le Tartarinate ( * da Tartarin de Tarascon) erano lecite. Ormai il campanello era suonato e ora lì, in quel salotto piacevole e adornato con buon gusto mi ci sarei accomodato volentieri, anzi, maleducatamente lo feci, dato che due signorine mi avevano già dato il buon esempio:” se la va, la va e poi siamo tutti giovani e tutto potrà ancora finire in una buona e lieta risata.” Così i dieci minuti del rompete le righe erano passati da venti minuti quando ritornai colle “cappelle” e devo ringraziare il Cap. Maggiore Malandrino se ora non sono agli arresti dal Maggiore. Visto che non ritornavo, all’ora, al minuto preciso egli fece l’adunata e continuò l’istruzione; passa Marzano e mi cerca: ”Il Tenente aveva male e si è recato in perlustrazione” risponde il bravo e intelligente Caporal Maggiore: non per nulla me l’ero portato con me dal Battaglione. Così trovai un piano per Ferri, un salotto ove passare l’ora del thè per Bric e scampai agli arresti. Caro vecchio Malandrino, matto dei matti, medaglia del Monte Nero, ove sei tu? Quanti Malandrinetti hai a quest’ora cosparso nella tua Rivoli? E quante bottiglie? Venne la seconda stelletta per Di Caporiacco, la festeggiammo in casa della “Professoressa”. C’erano, lui, Ferri, Bric, lei, cioè la Professoressa, e la vecchia signora Losano, la padrona del palazzo. Fu una veglia strana, ma faceta, ma sincera! Tre giovani più che matti, colla borsa vuota, e due vecchie signore, rispettabili, buone e premurose e sentenziose come due mamme! Le bottiglie e le paste :a dire la verità, il maggior onore se l’ebbero le bottiglie, ed in ciò le due “mammine erano d’accordo con gli alpinotti”: “ i fioi” Quando già erano le ventidue passate da un bel poco, mamma Losano mi chiama con sé, scendiamo, scendiamo ancora più in basso che al piano terreno: lei diavolo, aveva la chiave della cantina in tasca. Un cesto di vimini con sei scomparti, si ebbe tutti i sei scomparti occupati da una bottiglia di quelle dalla pancia grossa ( “prégne e sensa cul” come le chiamava essa) per ciascun quadretto di vuoto, così Bric con il canestro, e lei con un vecchio formaggio nel grembiule, si sale all’appartamento, ove la festa per mancanza di combustibile minacciava di scivolare nel sentimentale colla contemplazione degli “abbiemus” della Professoressa. Come si conviene a persone dabbene, alle dodici e qualche cosa, ( quel qualche cosa non so precisare se valesse per ore o minuti) ognuno doveva ritirarsi a casa sua. Il più fortunato fu Ferri, perché aveva tutto piano quel tratto di quattro o cinque metri di corridoio, ma Di Caporiacco e Briquett dovettero fare la scalata di due rampe di scale a quattro gambe, gradino per gradino, fino al piano superiore, l’ascensione riuscì grazie al loro talento escalatore e coll’ausilio di alcune soste per prendere fiato, cioè per fare una dormitina; riuscì pure loro, dopo ventisette prove di infilar la chiave nella toppa e di raggiungere F loro letto, la qual cosa fu certamente, perché allo svegliarmi, trovai lo scendiletto che mi serviva da coperta; Di Caporiacco invece ronfava ancora nella stanza attigua e lo svegliai prima che arrivasse l’attendente: lui per non cadere aveva portato il cuscino sotto il tavolo e vi aveva appoggiato le scarpette sopra. “Ah, delizia del mio cuor!” “ All’indomani mattina, cioè un po’ più tardi eravamo i severi ufficiali che passavano in testa ai plotoni, a passo cadenzato, nelle vecchie vie della angusta città. Ironia delle cose e delle situazioni! Ma i soldati e anche i colonnelli, quando lo potevano, non stavano indietro! Siamo tutti discendenti da quell’unico padre eterno, e in quel mentre eravamo gli “alpini”. Benvoluti da tutti a Chieri, anche dai Gesuiti, cosa strana! Stranissima!�Fra i più bei tipi di ufficiali colà convenuti ricorderò Manso(?), Campari del 7° e Gozi della Repubblica di San Marino, ora Gonfalone, Lotti e Mattai del Moro, e Arvat d’Aosta. C’era pure Guelpa, ed altri ancora. Guelpa aveva alloggio in casa di una vedova ( vista da vicino era assai giovane, ma vestiva male, come lui del resto che aveva sempre le fasce sfatte ed i calzettoni giù sulle scarpe: chi si assomiglia s’appaia! Andavo ogni tanto a trovarlo nella sua “famiglia”, ma lui non era troppo contento, perché, diceva, gli mettevo sottosopra la baracca, e per non sentirsi più rimproverare le fasce mal messe e i calzettoni flosci, si comperò un paio di gambali di cuoio, ma neppure con quelli ebbe pace: con impertinenza massima Bric chiedeva alla vedova, padroncina di casa, se erano adatti ad attizzare il fuoco, quei tubi da stufa! Fra i fatti interessanti da ricordare:” Lo scoprimento delle mutandine all’albergo dei Tre Re, sede degli “aristocratici” “delle cappellaie” e della macellaia, le eroine del distaccamento; e la beffa al dottore Capitano Medico , la quale ultima ebbe in fino a St-Vincent nel 1920, quando meno me l’aspettavo e desideravo! La fatalità vuole che una paglia del passato debba cuscinare il presente. Le cappellaie, belline, ma verniciate, erano sempre sui tre gradini dai quali si accede nella cappelleria: in quel tratto la via è stretta; passando colla truppa inquadrata, l’ufficiale che marcia di fianco si trovava così il passo ostruito, ed era costretto a entrare nei ranghi, o “chiedere” con un sorriso, il permesso, ed era quello che esse aspettavano, ma non garbava affatto, la mia compagnia doveva passare quasi tutti i giorni in quella via; quando ero alla testa dei soldati non mi piaceva scherzare: il servizio è una cosa, il divertimento un’altra e per ogni cosa c’è il suo tempo e il suo ambiente. Una bella mattina le sbarazzai per sempre: appena intravvisti i vestitini comparire sul gradino, gradino assai liscio per l’uso, fingendo di non accorgermi di loro e voltandomi a dare la cadenza alla truppa, camminavo a ritroso e naturalmente col deretano inciampai alla cappellaia numero uno, i miei tacchi forzati scivolano, essa scivola per forza dello spintone ricevuto , cadendo in braccio alle gambe della cappellaia numero due, e così eccole tutte e due colle zampette in aria, e col dessous multicolore in pasto al sole e agli alpinotti che passavano. Non ho tempo di “profondermi in mille scuse”, perché “il dovere” mi chiama in testa al plotone di guid. Mi sono fatto due acerrime nemiche, ma è stato liberato il passo da quelle bambole verniciate.
 
La vendetta femminile venne molto dopo, quando eravamo al Campo a Oulx, cioè quando, sospeso il campo ci trovavamo a Torino per spegnere quel principio di incendio rivoluzionario scoppiato in agosto. “Il Birichin” giornaletto piemontese, letto dagli amatori, di tutte quelle melensaggini portava un brano carino degli alpini di Chieri. Quelle “cuntacc” erano state a Oulx e vi avevano trovate a villeggiatura alcune signore di Chieri, e la cosa venne più o meno spiritosamente riportata nel “Birichin”, implicandovi con intenzione maliziosa e rabbia “gli alpini”. Nessuno si prese la briga di rispondere, ma come succede sempre nelle piccole città e nei grossi paesi di provincia la cosa fece chiasso e sollevò un mugolio di pettegolezzi, e giunse fino alle orecchie del Maggiore attraverso delle vecchie signorine zitelle che ancora si davano delle arie, amiche della temuta moglie del nostro comandante. La nostra risposta avvenne in due riprese: la prima era solamente destinata a coprire e a non far attendere la seconda, naturalmente assai più terribile.
Ritornando da Torino, tutto il Battaglione riunito, con la fanfara in testa, la seconda compagnia era in testa, ea pochi passi dal Maggiore che precedeva a cavallo. I tre quarti della città si era rovesciata al nostro passaggio per darci un cordiale e sincero benvenuto. In piazza Cavour c’era un gruppo assai numeroso delle “ostili” infatti poco prima del nostro passare invece di far eco al grido della folla :”Viva gli alpini” udimmo l’odioso “viva i carabinieri!” Fatalità volle che Malandrino che marciava di guida alla mia destra lo udisse distintamente, egli, compositore di canzonette militari improvvisate, di ritornelli, vivace e focoso, non si trattenne, e conoscendo bene quelle, non esitò un istante, e mentre le cornette delle fanfare cantavano il ritornello delle giornate: “Noi siamo i veci fondatori di quella Lega, “di chi se ne frega, di chi se ne frega... Egli si volse al plotone: “Primo plotone Viva la Ciornia! Lo ripeté il secondo, non feci in tempo ad impedirlo, il terzo e il quarto (Vuol dire Viva la Carnia ove più il 3° Alpini...). Il Maggiore era paonazzo, io mi attendevo gli arresti che però non vennero, come non venne nulla a Malandrino, che da pochi giorni era stato promosso sergente, in seguito al buon esito del suo servizio di Pubblica Sicurezza. Il gruppo ostile ondeggiando si ritirò seguito dai lazzi e dalle risate delle popolane e della folla.: ”Impareranno per un’altra volta a rispettare gli alpini del Terzo” mi diceva Malandrino mentre raggiungevamo via Consolata, ed io non potevo fare a meno che compiacermene. Intanto, per il tramite degli attendenti, filo sottile, invisibile come il filo insidioso teso dal ragno laborioso, si venne a sapere che le cappellaie coll’amica di fronte, si recavano spesso all’albergo dei Tre Re in piazza Cavour, ove era insediato il quartier generale degli aristocratici del Distaccamento. L’attendente che dividevo con Di Caporiacco, ragazzino sveglio e fusto divenne l’amico del cuore di una giovane cameriera di quell’albergo. In quel nodo eravamo perfettamente ed esattamente e tempestivamente informati di tutti i discorsi, i progetti formulati colà. Una notte le tre amiche vi pernottarono, ed alle ore mattutine dell’alba, se ne ritornarono a casa, una senza copri testa, l’altra senza le mutandine e la terza senza un altro indumento assai intimo affetto personale: tutti oggetti contrassegnati con le cifre delle proprietarie per disteso, a magnifiche lettere ricamate (Chieri è la città fabbricante di tela per eccellenza). Sia la fretta, sia la sonnolenza, e chissà come non si avvidero del trafugamento o non ci fecero caso a un pensierino di vera importanza alla cosa. La settimana successiva il “Birichin” recava il seguente annuncio: ”Chier, patria del card: all’albo sotto l’arco, domenica mattina verranno esposti tre oggettini rinvenuti in città alle tre del mattino, in piazza Cavour: le persone che possono averli smarriti potranno riaverli”. Dalla sala al primo piano dell’albergo Cavallo Bianco, ove era installata la nostra mensa, si vedeva distintamente l’albo con i tre oggettini bianchi che sventolavano, se vi avessimo esposto il San Sudario non vi avremmo potuto vedere un maggiore concorso di curiosi: la maggioranza giovani donne e 102 signorine, la piazza risuonava di risate, e i più furbi ammiccavano verso l’ampio balcone del nostro salone. Da quel giorno però non mi azzardai più di passare troppo sotto il salone delle cappellaie e dell’altra. Una tegola fa presto a staccarsi dal tetto! La cameriera dei Tre Re fu licenziata e se ce ne fossimo fidati l’avremmo occupata alla nostra mensa, ma trovai più conveniente raccomandarla alla “Professoressa” che la piazzò presso lo stabilimento dei suoi cugini.- Questa fu la seconda risposta.- A onor del vero, quando la parcella di Caporetto già si sentiva nell’aria, e che partimmo per la zona minacciata ufficiali soli, ed eravamo alla Stazione, ove il Maggiore prima di separarci ci abbracciò tutti, e ove quell’abbraccio affettuoso fu il segnale dell’assalto alle nostre povere persone, (eravamo diciannove partenti e anche le nostre “nemiche” ci vollero abbracciare ed (il colmo), avevano i lacrimoni. Lo seppi molto tempo dopo dalla “Professoressa” , che una le scrisse che dopo la nostra partenza, la vita di quel Distaccamento era morta. Un po’va attribuito alla disgrazia della Patria che non potevamo fare a meno che riparandovi nell’animo quell’affettuosa e patriottica popolazione.
 
Prima di partire pel campo a Oulx, noi ci recammo spesso a far la istruzione secondaria al piazzale della stazione che ci serviva da piazza d’armi. Di là si dipartivano tre viali . Il ramo di destra con la doppia banchina era quello che preferibilmente sceglievo, sia perché più ombreggiato, meno frequentato dai veicoli e quindi la truppa era meno disturbata, ed anche, soprattutto perché fiancheggiato a destra da casette abitate da gente che si divertiva un mondo ai nostri giuochi e simpatizzava con noi, ed a sinistra dal giardino di una famiglia presso la quale “la Professoressa” mi aveva accompagnato e presentato. Quella conoscenza non era troppo confacente e conforme al mio carattere, ma non potevo essere scorretto.- Faceva un caldo boia un pomeriggio, in quel paese non ci sono fontane pubbliche, solo pozzi. Là avevo notato una sposa poco meno che trentenne, bel tipo formoso ed esuberante, che si intratteneva gaiamente lavorando all’uncinetto ed assistere ai giuochi sempre nuovi che escogitavo per premiare i soldati quando facevano bene alla istruzione; avevo già notato l’uscio e le finestre del suo alloggio a pian terreno, al di là di quella casettina c’era un tratto lungi pochi metri coltivato a fiori, e poi i la ferrovia; nel giardino c’era il pozzo. Avevo sete e mi affacciai a quella finestra chiedendo per gentilezza acqua del pozzo: ero assetato e che sete! Ella mi fece accomodare in casa e mi servì l’acqua in una tazza; mentre lei era al pozzo misi il becco su di un album aperto sul tavolo del salotto, vi erano segnati alcuni versi. Al suo ritorno, dimenticando il pretesto col quale mi ero intrufolato, la conversazione converse sulla poesia e fui invitato dopo cena, per continuare le nostre dissertazioni. Così volli recarmi per sincerarmi quale sentimentalismo tenesse accesa la fiaccola poetica in quella giovane donna più in vena di vita vissuta nella cruda e soda realtà che nell’estro poetico. Capii come i versi fossero null’altro che una esca ad un atteggiamento, ma non ebbi a rimpiangere tempo perduto. Il suo sposino era profondamente imboscato a Padova: questo particolare “imboscato” mi tolse ogni scrupolo, anzi mi fece credere un “dovere” quel che altrimenti avrei potuto ritenere poco degno. Nell’animo nostro crucciato, eravamo aizzati contro gli imboscati penso tanto quanto lo eravamo contro gli austriaci. Quindi opera lodevole l’appropriarsi e godere dei beni del nemico! Quella donnina mi era informatrice preziosa e mi diceva tutto, ben era addentro a dei dettagli intimi di molte persone, e ciò serviva a me e per i miei amici. Quindi mi recavo seco lei,( avevamo cambiato ora) verso le ventidue, sempre con due verbi:” Dare e sapere” mentre forse in lei c’era il contrapposto simmetrico: “ dire per avere”, non mi curai di approfondire la cosa, così seppi che il Dottore, allora nostro Capitano Medico, scapolo impenitente, che conviveva con la madre e una sorella al quarto piano sopra il Caffè di Piazza Cavour, era un amico di essa e scriveva al marito le notizie di essa, quindi anche quelle concernenti la salute della signora e per fare ciò aveva bisogno di farle ogni tanto qualche visitina, pure lui alle ventidue.- Per fortuna la sua necessità professionale non la sentiva troppo spesso, ma ad ogni modo ciò mi indisponeva assai, ma essa fece i patti giusti:” Senti, lui fa il medico e fa la diagnosi”, capii e finii io stesso in vece sua la frase:” E io faccio il farmacista, anche senza ricetta, somministro la medicina all’ammalata, così, eh? Ti piace!”. .Eravamo ritornati da Torino quando una disgraziata sera, verso le ventidue e mezzo, egli venne improvvisamente per una visita e se non erro era di venerdì! Ah, il venerdì! Eppure è il giorno dedicato a Venere! Ma sembra che gli vada male da quel giorno infausto, circa 1929 anni fa...Ebbene, udiamo i segnali alla porta del corridoio: ci guardiamo attoniti, noi due che si stava comodamente seduti sull’orlo del suo ampio letto a comporre un sonetto di versi martelliani, dove passare per uscire inosservato? E ove nascondermi che quel vecchio ruffiano non mi possa scovare? Ella ebbe un’idea geniale, sempre geniali le donne per raccontare le cose a modo loro, e per prendere due fave con un piccione, cioèdue uccelli con una fava! “Nasconditi sotto il letto, ben bene contro il muro”. “Io no, piuttosto lo ammazzo”. “Te ne prego, non rovinarmi, farò presto a rimandarlo, gli dico che sono indisposta”. Non c’era tempo da perdere in discussioni e, mi coricai sotto il letto, ma con una rabbia tale, mangiare quella polvere! Già un’altra volta mi toccò di trangugiare la fuliggine su per la cappa di un camino. Maledette femmine, che il diavolo, mio vecchio compare Belzebù, si porti via quella generazione. Intanto il medico aveva diagnosticato che lei era dispostissima e volere o volare, lei sulla sponda, io sotto, dovemmo subire l’atroce pozione: povero Bric! Una nuvoletta di polvere mi cadeva sul muso ad ogni sobbalzo delle molle del letto, “Eh, anche questa “cruenta polve!”. Bric non resiste più, soffoca, e dall’angolo esterno appoggia la spalla sotto al pagliericcio e lo solleva: questo fa perno sulla sponda dov’erano i due che cadono a terra sepolti dal materasso e da un groviglio di coperte: una testa, forse quella di lui, (che non fosse quella di lei, poverina), picchiò secco sul pavimento, Bric si rizza come Mefistofele quando sbuca dall’inferno, e come lui ride mefistofelicamente , poi dà un balzo e passò, lasciando le due porte spalancate e il centauro con la cavallina a dimenarsi.:” Questa volta ho fatto il farmacista e vi ho dato la medicina a tutti e due”. Sabato pomeriggio, Di Capriacco e Bric sono al Caffè Cavour, Lino (Di Capriacco) chiede al Capitano medico conto delle lividure sul sopracciglio; Bric è in ansia non sapendo come le cose sarebbero finite; il Capitano invece di rispondere, va a sedersi con Bric e con lui si confida: ”Maledette donne...(ci siamo) maledetto vino! Ieri notte con due amici ho fatto una “sbornietta” e tornando a casa, entrai al buio e andai a picchiare colla fronte contro lo spigolo della porta dell’armadio a vetri che mia sorella aveva dimenticato aperto, quelle donne sono sempre distratte”. “Eh no, Capitano, sarà piuttosto qualche garzoncello geloso”. “Questo non mi succede più alla mia età e onorabilità”. 104 Ma intanto Lino aveva accennato alla trama sintetica della faccenda notturna col padrone del Caffè, cugino del Dottore, e tutti e due si smascellavano dalle risa: il caffettiere ci servì una bottiglia di moscato tanto era allegro. Chissà, a tanti anni di distanza, se quegli ameni tipi, in quella saletta, non ricorderanno ancora l’avventura!, se non son morti! A Saint-Vincent, nel 1920, un mio compagno era gravemente malato. Una sua sorella, sposa ad un impiegato dell’ufficio tecnico di Finanza era nella sua camera con la mamma ed altre cugine quando io mi ero recato a visitarlo. Da molto tempo non vedevo più quella sua sorella e il mio amico ci ripresentò, ricordando che fummo a scuola insieme quando ancora piccinini e quel ricordo riconferma la confidenza. (Per caso c’era lì presente quella mamma che anni addietro mi aveva avuto in casa sua su per il camino, zia dell’amico mio). La sorella mi disse che era a Chieri col marito, colà per ragioni di ufficio. Me ne compiacqui e le chiesi notizie di persone di mia conoscenza, tenendomi però alla larga dai punti delicati. Essa però non era del mio stesso parere, e sorridendo maliziosamente colla finta ingenuità propria delle donne, mi viene a parlare della signora Bruna vicino alla stazione, ed irritata dalla mia corta memoria, ecco spifferarmi lì, in presenza di tutti, la storia del letto! Avrei preferito avere il tifo in quel momento, e chi più rideva era la zia; ma essa fu più benevola e compiacente, pietosamente tacque l’affare del caminetto. Così tre anni dopo seppi come quella sposina non mi aveva serbato rancore. Dalle quattro del mattino alle diciannove. Aforisma: La donna in quelle condizioni perdona sempre... a condizione di essere sempre ... sì, sempre pronto ai suoi piedi. Il campo a Oulx era faticoso, ma ciò malgrado, una domenica, in alcuni amici, preso il permesso di assentarci dal Presidio, Ci rechiamo a Cesana, e di là al Colle del Sestriere, confine Italo-Francese, a sud delle pendici del Monte Chaberton. Il Chaberton ha forma piramidale e ricorda il Cervino: la sommità è fortificata: scavi di gallerie nella viva roccia, e postazioni per pezzi di 149. L’altitudine del Mont- Janus parte francese opposto al Chaberton e di circa settecento metri inferiore. Da Sestrière, piccolo villaggio di sei case, attraversiamo il confine nella magnifica strada napoleonica e ci rechiamo a Mont-Genèvre , piccolo villaggio francese, dotato di campanile, tabaccaio e osteria. Non ci è consentito di penetrare più in dentro in terra francese. Non so se è un effetto di autosuggestione, o che, ma notai, non appena cento metri al di là del confine che si sentiva una “differenza”: non si era più in Italia! Si fece acquisto di tabacco, francobolli e, cartoline che furono spedite di lì agli amici, tanto per far vedere che si è stati in Francia, e ... si bevve un paio di litri di vino bianco. Facemmo conoscenza con alcuni francesi, bravi giovanotti come tutti i nostri montanari; due erano regione dell’Auvergne, ed essendo le due nazioni alleate, si fraternizza facilmente e ci scambiamo reciprocamente delle cortesie, quando i governi si accordano, i figli del popolo son subito affratellati: non è che la politica che “ ci lavora “ le menti e ci crea delle linee di demarcazione immaginarie al di là delle quali la gente non è più gente, se ci si pensa un po’! I politicanti io li metterei tutti in una volta sola inquadrati nelle compagnie di arditi, e queste compagnie sotto il fuoco delle artiglierie, delle bombarde che ululano, sotto le raffiche di mitragliatrici, colla nebbia dei gas che ci mandano in paradiso al profumo di rose o al gusto dei lamponi, io li lancerei le une contro lei altre fino al loro completo sterminio, e le farei coprire coll’yprite affinché i superstiti non possano più prolificare e che così sia finita di esistere quella razza maledetta! Avete capito signori politiconi
Fatti di Torino Estate1917....................................
 
(Da "Il Pane del Fante" di Vincenzo Gorris Tenente Addestramento "Ragazzi del 99" di stanza a Chieri nel 1917 - per Gentile Concessione di Vincenzina Gorris)