Per ricordarli e dire loro ancora tutto il mio bene, vorrei concludere questa mia tesi in un modo del tutto anomalo, riportando il loro racconto. Mi rendo conto che esso è lontano da qualsiasi metodologia storiografica e che non è mai stato verificato su alcun’altra fonte, ma lo espongo solo come testimonianza personale, al confine tra verità vissuta e mito, pensando che la mia esistenza è così come la vivo oggi anche in conseguenza di queste vicende: una sorta di marchio che ha lasciato la sua impressione sulla famiglia da cui provengo.
Come ricordo il racconto dei nonni.
A Dignano d’Istria, non lontano da Pola, erano nati nel primo decennio del secolo scorso Maria e Francesco.
Il paese era allora sotto l’Austria, ma, quando la fine della prima guerra mondiale portò l’annessione della regione all’Italia, si tennero festeggiamenti così memorabili che, loro, appena ragazzini, li ricordarono per sempre: “Mio papà – raccontava mia nonna – tirò fuori la bandiera tricolore che fin dalla gioventù aveva serbato nascosta come un tesoro e corse per primo a sventolarla in piazza!”.
Lei proveniva da una famiglia relativamente benestante, che, nonostante la morte precoce del padre, le aveva consentito di studiare fino all’avviamento e di trovare poi un impiego da contabile in un magazzino (al fontego), considerato allora “un buon posto”. Era una ragazza che le “babe” del paese, con una buona dose di sospetto e forse un po’ d’invidia, giudicavano moderna, “all’avanguardia”, poiché lavorava fuori di casa (contravvenendo ai detti secolari della tradizione: “donna e rosa meno si mostrano e più piacciono”, “donne e gatti amano la casa”, “donne e galline per troppo andar fora si perdono”!). In ogni caso - tutti ammettevano - viveva da brava putela, mantenendo la madre e un’anziana zia, per le quali non solo sbrigava comunque le faccende domestiche, ma anche risolveva ogni piccolo problema quotidiano.
Lui era figlio di una donna rimasta vedova con due bambini piccolissimi da crescere, austera e rigida d’aspetto e di temperamento, capace di zappare da sola un po’ di stentata campagna e di lavorare per terzi di maglia e cucito per sfamare i suoi figli. Sentendosi responsabile anche del futuro della sorella maggiore, Francesco aveva interrotto gli studi e cominciato come ragazzo di bottega presso un falegname. Ben presto, però, grazie alla sua facilità di apprendimento e ad un’innata creatività, aveva aperto un piccolo laboratorio in proprio. Di buonora, con la cassetta degli attrezzi sottobraccio, scendeva canterellando dal “Pian” per raggiungere il centro attraverso la Calnova tra continui saluti e richiami: la gente del paese gli voleva bene e lo stimava, gli affidava volentieri lavori anche impegnativi ed aveva scelto proprio lui per costruire il grande altare ligneo che in piazza del municipio doveva celebrare il Congresso Eucaristico (1936). Molto tempo dopo, percorrendo le strade del paese in chiaro abbandono e popolato solo da rari Slavi e zingari, il nonno mi indicava ancora con orgoglio ogni portoncino o balcone di sua fattura: le modanature, le volute raffinate, le incisioni e i rilievi, che ancora addolcivano quel legno ormai arido, privo delle cure di anni, mi facevano pensare alle sue mani prodigiose, che anche nelle nostre case costruivano o aggiustavano qualsiasi cosa.
Entrambi frequentavano la parrocchia, il grande duomo settecentesco dedicato a San Biagio, patrono di Dignano; amavano quella chiesa che, dal cuore del paese, sembrava vigilare con cura affettuosa su ogni suo angolo, slanciandosi al cielo con il campanile veneziano che orgogliosamente i Dignanesi dichiaravano il più alto dell’Istria. Fin da allora la fede era per loro un fondamento solido, che dava un senso più pieno alla vita, ogni giorno spesa semplicemente in solidarietà e accoglienza.
Soprattutto il nonno aveva un carattere allegro che immediatamente gli raggruppava intorno la gente: c’erano sempre per tutti un “bicèr” di robusto “Teràn”, pane e prosciutto (“quel bon, de Dignan!”), ma anche un orecchio attento all’ascolto e un incoraggiamento, forte di una sapienza concreta. Suonava con gioiosa allegria il sassofono nella banda del paese ed era un giovane infaticabile e pieno di vita.
Maria era più riservata, forse un po’ timida; nonostante nonno la definisse “la più bella di tutta Dignano”, era piccolina, poco appariscente e solo i grandi occhi azzurri rivelavano una dolcezza mite e serena. Di lei non posso dimenticare come, ancora dopo gli ottant’anni, avesse il coraggio di aprire la porta di casa sua a chiunque avesse qualcosa da chiedere e subito preparasse la tavola per un mendicante, uno straniero, uno sbandato. Quando le rapinarono l’orologino d’oro che Francesco le aveva regalato per qualche anniversario importante, senza alcuna rabbia o rancore, si limitò a supporre che forse chi glielo aveva preso ne aveva più bisogno di lei.
Sposarsi per loro non fu facile.
Si erano innamorati durante un pellegrinaggio diocesano a Roma (1933): Francesco, che l’adocchiava da un pezzo, con un timore e un tremore per lui insoliti (Maria aveva un paio d’anni in più e anche socialmente gli sembrava irraggiungibile), scoprì di essere ricambiato, ma la famiglia della donna riteneva che questa figlia dovesse dedicarsi esclusivamente all’assistenza dei suoi e che un matrimonio avrebbe sconvolto tali progetti. Solo la pazienza, o forse la cocciutaggine, del nonno, che si assunse comunque l’onere dell’intero parentado, riuscirono a vincere un atteggiamento così egoistico, ma in quel tempo ritenuto normale, se non doveroso. Le nozze tanto sospirate si celebrarono, infine, cinque anni più tardi (1938).
E così gli sposi andarono a vivere nella casa di lei insieme a due donne anziane.
Da subito la vecchia dimora, una grande porzione di una lunga fila che scendeva con la strada al limitare del paese, sembrò tornare ad antichi fasti: nuove tinteggiature, infissi e steccati perfetti, il pozzo che riprendeva a funzionare senza cigolii, l’orto e la vigna che riconquistavano forme regolari, mentre ogni stagione produceva i suoi frutti e i suoi fiori, aromi colorati nelle sere d’estate, che Maria tanto amava.
Nacquero due bambini, prima una femmina e poi un maschio, ma fu troppo breve il tempo spensierato delle gite al mare a Fasana, fatte sul carretto tirato dall’asino, e delle raccolte di “spàrisi” selvatici in “Pròstimo”, dove le feste di benedizione della campagna si ripetevano da secoli e i canti si prolungavano ad addolcire la notte.
La guerra, il mostro nero che non muore mai, venne presto a sconvolgere la vita tranquilla del paese.
Francesco fu richiamato e partì per la Sardegna, dove, per fortuna, non corse mai pericoli gravi, non patì troppo la fame, riuscì a stringere qualche buona amicizia, anche se tornò portandosi dietro la malaria. Non appena era stata scoperta la sua abilità, lo avevano assegnato alla costruzione di quelle file di casette di legno colorate che ancora pochi anni fa orlavano il Poetto, la luminosa e interminata spiaggia bianca di Cagliari.
Però, la lontananza dalla famiglia pesava molto e gli scambi di notizie, rarissimi e difficoltosi, generavano ansie e timori dolorosi.
Quando, infine, poté rientrare, scoprì che i suoi figli, nonostante le inevitabili miserie di ogni conflitto, erano diventati “grandissimi” (6 e 4 anni!), ma il paese lo ritrovò malato di strani e inquietanti sintomi, che serpeggiavano subdoli tra la gente e creavano, anziché la gioia di una pace riconquistata, tensioni e sospetto. L’incertezza pesava come una cappa greve sul futuro e nuovi e antichi odii etnici e politici sembravano aver spazzato via dal borgo ogni solidarietà. Mentre lontano la diplomazia svolgeva sulla carta lunghe e astratte trattative, accuse di collaborazionismo e di rivoluzione, rivendicazioni di razza, rancori e gelosie sembravano aver frantumato il luogo, non più, come una volta, consono, fatto di uomini compaesani, ma di “nemici”, “fascisti”, “comunisti”, “titini”, “italiani”, “slavi”, “bastardi”, “capitalisti” e mille altre etichette, che avevano in comune soltanto lo sprezzante livore con cui venivano pronunciate.
I nonni, forti del ritrovarsi di nuovo uniti, pensarono con una certa ingenuità di essere abbastanza al di fuori del marasma e credettero che sarebbe bastato ricominciare a lavorare seriamente per affrontare con serenità il domani, ricostruendo a poco a poco affetti e amicizia.
Invece, vennero giorni cupi, scanditi dal freddo acre della paura.
Francesco aveva trovato lavoro a Pola in un grande mulino, in cui si occupava della manutenzione dei macchinari. Ogni giorno percorreva in treno i pochi chilometri che lo portavano in città; lo sguardo vagava sui segni dell’autunno inoltrato, sui familiari campi rosseggianti di stoppie dorate, riquadrati dalle “masiere”, faticose tracce di generazioni passate, e sul mare sempre scintillante d’azzurro, su cui si rincorrevano, incalzate dalla bora, onde di spuma fino all’approdo di Brioni, ma il viaggio si faceva sempre più lungo e difficile. Ispezioni continue di militari, di partigiani, di alleati e di chiunque si arrogasse una qualche pretesa autorità causavano mille soste, mille sospettosi controlli in cerca di qualcosa che nessuno sapeva.
Proprio in una di queste fermate salì sui vagoni un gruppo di persone armate, che intimarono a tutti di scendere e li trascinarono in quella che si definiva una “prigione della polizia patriottica”: fu una di quelle retate, di cui si era già sparsa voce in paese, che si mormorava finissero spesso con la sparizione misteriosa dei malcapitati.
Nonno ebbe due gravi colpe ai loro occhi: era italiano e cristiano. Gli fu trovata in tasca una vecchia tessera dell’Azione Cattolica: il che gli valse, per cominciare, un bel pestaggio. Per altro, era il periodo in cui una furia rivendicativa e indiscriminata colpiva anche la Chiesa, ritenuta implicata in colpe di ogni sorta: il parroco del paese fu portato via a forza dalla cattedrale, mentre ben di peggio capitò ad un vescovo della zona, ucciso come un malfattore e mutilato in segno di disprezzo. Ma dei momenti che seguirono mio nonno non parlava mai: credo rifiutasse ancora di credere alla crudeltà insensata e bestiale che aveva visto. Posso immaginare come l’intera vita gli fosse scorsa davanti agli occhi e quanto l’angoscia per il destino dei suoi cari, più che per il proprio, gli fosse dilagata nell’animo.
E’ a questo punto che Maria, la discreta e pacata Maria, si fece leonessa. Qualcuno, forse uno dei tanti amici che Francesco ancora aveva, era corso a casa a riferire del rastrellamento sul treno e lei, immediatamente, si recò in ogni dove, alla polizia, dalle autorità locali, alle postazioni dei partigiani, infine al comando alleato a Pola, chiedendo, supplicando, forse persino esigendo, sfidando, forte solo della sua retta coscienza, finché non ebbe qualche notizia certa e, grazie all’intervento degli Americani, ottenne il rilascio di Francesco. Ma della maggior parte delle persone che erano su quel treno non si seppe più nulla. Solo molti anni dopo si pronunciò una parola di spiegazione, sommessa quanto tremenda: foibe.
Fu dopo questo episodio che la famiglia decise di lasciare l’Istria.
Da Trieste, dove un cugino di Maria stava gestendo da sindaco l’incerto dopoguerra, venne un consiglio: andare “più in là”, per ritrovare almeno la sicurezza fisica e una situazione più stabile.
Quello che seguì fu la trafila affrontata da molti: abbandonare ogni cosa, e anzitutto i ricordi più cari, sbarrando case e cuori e gettandone via le chiavi; povere valige da migranti; qualche pezzo di mobilio spedito al deposito di qualche porto; e loro caricati sul vapore, il Vulcania, gemello del più famigerato Toscana, con un groppo di lacrime in gola che mai si sarebbe davvero sciolto.
I nonni partirono con due bambini, tre vecchie e una sorella-cognata nubile, tutti con addosso due cappotti pesanti, che il piccolo bagaglio al seguito non riusciva a contenere e che qualcuno di loro aveva anche frettolosamente scambiato all’ultimo momento con lo scrittoio “bello” dello zio prete o con il servizio dei piatti della domenica.
Arrivarono fino a Torino, poi a Chieri, dove non mancarono loro accoglienza e disponibilità, anche se quel termine “profughi” risuonava di continuo più freddo del gelo terribile dell’inverno del 1947.
Ebbero il coraggio di ricominciare e ricostruirsi una vita normale affrontando con forza e serenità problemi e fatica.
Sono morti in età avanzata, lui, per un cedimento del cuore, nel 1992, la vigilia della festa di San Giuseppe, il “protettore dei falegnami”, lei nel 2001, una notte di prima estate, inavvertitamente, in un sonno sereno, come al solito senza far rumore e senza disturbare nessuno.
Ma di entrambi sono certa di conoscere l’ultimo pensiero: la preghiera che il Signore nel suo paradiso lasciasse loro, per ritrovarsi, un angolino di terra dalle zolle rosse.